Intervista a Paolo Inghilleri

L’approccio transculturale come strumento di grande contemporaneità per riconoscere e curare i bisogni di salute mentale.

Intervista a Paolo Inghilleri, medico, Professore Ordinario di Psicologia Sociale e Docente della scuola di psicoterapia transculturale di GRT.

Che cosa si impara in una scuola di psicoterapia transculturale?
Si impara che la mente, basata su un substrato biologico molto specifico, il cervello, è una mente capace di interiorizzare cultura fin dai primi giorni di vita. Dalle prime relazioni con i genitori e con il mondo che sta intorno, la mente si costruisce giorno dopo giorno. A queste prime esperienze infantili si aggiungono poi altre esperienze che non avvengono in un vuoto, ma si situano in una serie di relazioni e di contesti culturali. Dato che abbiamo un cervello biologicamente intersoggettivo, il Sé individuale  tende a costruirsi in modo armonico e positivo con la realtà esterna. Ma in alcuni casi questo processo avviene con difficoltà o si interrompe a causa di una rottura appunto del “mio mondo”.
Nel caso delle migrazioni c’è la massima espressione di questa rottura, ma le rotture possono essere di moltissimi tipi. Possono essere collegate ad una separazione, al trasloco da una città ad un’altra, o ad un cambiamento radicale della nostra vita. I legami profondi con il mondo esterno che ci davano una protezione si interrompono e questo provoca sofferenza e malessere.

In questi casi l’obiettivo della psicoterapia transculturale è di riconoscere i momenti di rottura e, ancora prima, riconoscere la forza del legame del paziente col mondo sociale, col mondo culturale, e scoprire poi dove si è rotto. Da qui si può partire per incominciare ad elaborare la frattura e portare la persona a ricongiungersi anche con altri mondi ed altre relazioni, i mondi del cambiamento.
Questo è il processo di base della psicoterapia transculturale: la scoperta della rottura con il passato e la ricostruzione di legami.

Quindi chi si iscrive alla scuola che cosa impara?
Impara una metodologia della relazione terapeutica, della relazione clinica, della relazione con il paziente o la paziente per riuscire ad arrivare, in modo non traumatico, alla scoperta dell’interruzione dei legami e delle appartenenze. E per poi partire da questa riscoperta per ricostruire nuovi legami attraverso non solo un processo di tipo cognitivo, ma anche emozionale-affettivo. Questo vuol dire, per esempio, riuscire a cogliere, per una persona che è in difficoltà, quali sono i momenti in cui di nuovo si realizzano delle esperienze positive e dotate di senso e sottolinearle. Questo può avvenire, in primis, nella seduta terapeutica dove la persona riconosce che la nuova esperienza è vicina a quella del passato che ha perduto e che le manca; può così cercare poi di riprodurla o di riscoprirla e viverla anche nei contesti della vita quotidiana, quando esce dal luogo dove avviene la terapia.

L’approccio transculturale si può anche definire un atteggiamento, una postura, una lente, un modo di interpretare ciò che succede intorno e dentro di noi?
È senz’altro anche una lente e una postura perché attraverso il percorso di formazione, sia personale che teorico e di discussione dei casi, si va a scoprire qual è l’atteggiamento del futuro terapeuta rispetto alle differenze e come si raggiunge una visione aperta e transculturale. Un approccio che non è solo una presa di posizione “politica”, ma una metodologia precisa di scoperta delle proprie reazioni emotive rispetto ai casi che si affrontano, quelli di persone che hanno avuto delle rotture del  loro cosiddetto Io-culturale.
Metodologicamente ci si concentra molto sull’analisi della propria reazione emotiva: il proprio controtransfert riferito al transfert del paziente. Ciò è inteso non solo in termini soggettivi, ma anche culturali:  il terapeuta, infatti, deve scoprire la propria reazione emotiva quando è messo di fronte ad altri mondi, ad altre culture, ad altri punti di vista che si intersecano con la sua storia personale e sociale.

A chi consiglieresti questa scuola?
A tutte e a tutti!
In questo mondo contemporaneo il tema transculturale è evidente quotidianamente. La consiglio quindi a tutti i futuri psicoterapeuti che hanno interesse ad indagare le nostre reazioni di fronte a una realtà che cambia. La terapia ad esempio si indirizza a giovani, ragazzi e ragazze che stanno crescendo e cambiando. Non solo quelli che appartengono ad “altre culture”, ma un cambiamento che riguarda le famiglie italiane e le varie generazioni che si sono succedute negli ultimi decenni. In conclusione l’approccio transculturale è sintetizzato nell’idea di una mente intersoggettiva e relazionale, in termini di rapporti sia con gli altri (la famiglia, gli amici, i colleghi) sia con la società e la cultura in cui si vive. E io credo che un approccio di questo tipo, in un mondo complesso e conflittuale, può essere uno strumento molto utile per comprendere e dare risposte alle richieste di cura e aiuto che riceviamo come terapeuti.

Quindi nel 2024 una scuola come questa ha una valenza ancora più forte?
Sicuramente! E nel 2030 l’avrà ancora di più!
Per esempio, il Covid, creando rotture anche culturali (pensiamo ai diversi rapporti nelle famiglie, nella scuola, nel lavoro), ha reso evidente l’interconnessione tra la mente e la propria cultura di appartenenza; ma questo è un processo che è sempre esistito, un processo immanente e forse ora, per certi aspetti, accelerato e possibile fonte di angoscia e difficoltà in situazioni di cambiamento di valori e di fronte  a situazioni come le guerre e il cambiamento climatico

Tutte le informazioni sulla scuola le trovi qui: https://scuolatransculturale.it/

E se ti interessa rimanere aggiornato/a sulle novità della nostra organizzazione, iscriviti alla newsletter cliccando il riquadro in fondo a questa pagina. E seguici sui nostri canali social!